Ratti: "Il Valdo Fusi fa piangere"

4 luglio 2004

di Sara Strippoli

«Piange il cuore. Tutta colpa del provincialismo di questa città». Carlo Ratti, docente al Mit di Boston e all´Università di Harvard, davanti al cantiere del parcheggio di piazza Valdo Fusi scuote la testa e va dritto a quella che considera la radice del problema. «Prima di ogni altra considerazione, per tentare di essere anche propositivi e non solo critici, è opportuno chiedersi come possa essere successo che dopo sette anni e una spesa così ingente il risultato sia questo». La risposta, aggiunge, può soltanto essere una: «Torino ha difficoltà a liberarsi del suo atteggiamento provinciale. Sceglie la modalità del concorso di progettazione, la procedura seguita in tutto il mondo per la realizzazione di interventi di qualità, e poi nomina una giuria di basso profilo che sceglie uno dei progetti peggiori». L´esito? «Quello che abbiamo sotto gli occhi, neppure in linea con l´understatement sabaudo, non credo che la motivazione possa essere stata quella di aver avuto paura di osare. Anzi. Che poi questo parcheggio con la qualità abbia poco a che fare è un dato di fatto, basti citare quell´edificio piazzato in centro in legno lamellare che definiscono pretenziosamente un´orangerie. Pensi che alcuni colleghi dell´Mit in visita a Torino l´estate scorsa, vedendo i disegni della piazza con la baita si sono messi a ridere. Eppure alcuni dei progetti che hanno partecipato al concorso erano interessanti. Possibile che nessuno li abbia notati?». Ratti, facciamo un passo indietro. Una definizione per quest´opera? «Un attentato alla città». Quali critiche muove al progetto? «Presenta falle evidenti. Innanzitutto ha problemi distributivi. Non ha alcun senso che per entrare e uscire gli utenti siano costretti a fare un percorso lunghissimo. C´è poi un problema di inserimento nel contesto. Dal centro della piazza il profilo dai bordi rialzati, peraltro irregolare, scorcia malamente le facciate dei palazzi circostanti. Mentre le colonne di acciaio sulle vie laterali non dialogano con le preesistenze». Terzo punto? «Problemi di realizzazione. Il calcestruzzo a vista può essere un materiale bellissimo, ma deve essere realizzato a regola d´arte. In questo caso le finiture interne sono molto scadenti». Esiste la possibilità di rimediare? «Per il progetto non credo proprio. Come ha dichiarato l´altro giorno uno dei progettisti, i torinesi devono 'metabolizzarlo´. Forse voleva dire, come Calvino: accettare il brutto e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Per quanto riguarda le finiture con qualche stanziamento in più gli interni si potrebbero risistemare». Lei ha parlato di progettisti di valore che hanno partecipato al concorso. A chi si riferiva? «C´era un progetto di Andrea Bruno, un architetto che progetta molto all´estero e ha firmato la ristrutturazione del Castello di Rivoli. Una piazza quasi a raso e due grandi parallelepipedi di vetro che escono dal Museo di Scienze naturali, pieni di vegetazione». L´altro? «Il progetto dello studio Elastico di Cambiano, una specie di catena di montaggio del verde. Molto poetico. Ma una giuria di basso profilo non li ha presi in considerazione. Barcellona avrebbe chiamato Norman Foster o Richard Meier a scegliere. E non è questione di fondi, quello realizzato si è rivelato uno dei progetti più costosi» Ci sono colpevoli? «Credo che si debba chiedere in Comune all´ingegner Quirico o all´ingegner Burdizzo. Ma più di tutto conta il campanilismo». Torino è in trasformazione. Che impressione si è fatto? «Le piazze Emanuele Filiberto, Madama Cristina e Crispi sono interventi molto scadenti. Le piazze di Barcellona, Lione, Manchester sono state pubblicate sulle riviste di tutto il mondo. Quelle realizzate qui possono comparire solo nella sezione 'Outrage´ dell´Architectural Review. Parliamo della ristrutturazione delle Nuove, siamo già partiti con il piede sbagliato». Ci spiega perché?